La prossima domenica è la Pasqua della Risurrezione del Signore e io dovrei scrivere, dire il mio pensiero in proposito, ma la Pasqua, e quindi la Resurrezione, è un avvenimento troppo grande perché io possa dire qualcosa in proposito; per vari motivi. Prima di tutto, come dicevo prima, è troppo grande per me e inoltre oggi, mercoledì, alla vigilia del triduo pasquale avvolto, circondato dominato dagli avvenimenti non facilmente rimuovibili dalla mente di quelli che sono gli accadimenti della Passione di nostro Signore, trovo difficile immaginare la Pasqua. Essa, la Pasqua, la Risurrezione mi sembra così lontana, così poco immediata che non riesco ad immedesimarmi in essa e dire delle sensazioni che questa sicuramente provocherà. E’ come la primavera dei paesi freddi, delle zone fredde del nostro emisfero, che, mi dicono gli amici che l’hanno sperimentata, arriva all’improvviso: vai a letto d’inverno e, svegliandoti la mattina dopo ti accorgi che è primavera. Così è per me la Pasqua, arriva sempre improvvisa e, quasi, non ancora attesa. Comunque
BUONA PASQUA
mercoledì 31 marzo 2010
lunedì 22 marzo 2010
VI DOMENICA DI QUARESIMA - DOMENICA DELLE PALME
La quaresima si avvicina alla fine e già, anche col ritorno della primavera, si pregusta la Pasqua, la Risurrezione di Gesù e la rinascita nostra. Però non ci può essere Risurrezione senza passare attraverso il Getsemani, il Golgota e la Croce di Cristo. Per cercare di essere vicini a Gesù durante la sua Passione ho pensato di inserire queste mie riflessioni sulle sofferenze di Cristo. Auguro a tutti una Buona Pasqua cristiana. Che il Signore ci benedica.
Gesù Crocifisso
Riflessioni
Uno dei ricordini, “souvenir”, per così dire, che mi sono portato dalla Croazia, quando ho visitato il santuario di Merjiugorie, è l’abitudine di recitare sette “Padre Nostro”, sette “Ave Maria” e sette “Gloria” seguiti dalla recita del Credo. Spesso faccio questa preghiera mentre cammino per strada, in viaggio o nei momenti in cui mi annoio: così unisco l’utile a dilettevole. Così facendo mi sembra di accompagnarmi a Gesù Crocifisso e di sentirmi meno solo. So che Gesù è, se io lo chiamo, sempre al mio fianco, ma in questo modo mi accompagno a Lui più intensamente. Allo scopo di contare tutte queste preghiere ripetitive e sostanzialmente noiose in quanto sempre uguali e monotone, ho preso l’abitudine di pensare al Cristo Crocifisso enumerandone via - via le piaghe.
Un’altra preghiera che recito spesso, specie dopo la Comunione, è quella di San Bonaventura (da Civita di Bagnoregio). In essa si dice: “ ....... vado considerando le Vostre cinque piaghe.......”. Ma la recita della preghiera croata prevede sette passaggi. Allora mi sono cercato altre due piaghe di Nostro Signore: e non ne mancano a chi le voglia cercare.
Col primo “passaggio”, cioè con la recita dei primo ”Padre, Ave e Gloria”, concentro la mia attenzione sulla corona di spine posta sul capo di Gesù. (Matteo cap. 27)29]e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra La testa del Figlio di Dio, degna più di tutti a portare la corona di Re, umiliata e ferita dalle spine di una corona intrecciata dalla soldataglia per scherno! Il Creatore del mondo torturato dalle sue stesse creature con un arbusto da lui creato per amore di quelle stesse creature!! La derisione di Gesù nel racconto della flagellazione non fu un fatto occasionale, un avvenimento superfluo ed ininfluente nel racconto della passione, esso fu voluto, quasi studiato in ogni particolare, programmato quasi in modo scientifico ed attuato in modo da umiliare il Figlio di Dio, per decretarne agli occhi del mondo la sua sconfitta e la sua inconsistenza. “Altro che Figlio di Dio”, sembravano dire, “è un povero illuso e scemo che si è messo in testa delle idee e dei progetti più grandi di lui. Guardatelo ora!!” Re per burla, lo proclamano i soldati dopo che Erode lo aveva dichiarato un buffone, un uomo da burla(Luca cap. 23)[11]Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In modo quasi scientifico, dicevamo. E certamente sa di studio psicologico il colpire la sede dell’intelligenza, il posto dove si generano le idee: colpire la mente è annullare l’uomo, renderlo un nulla. E questo era lo scopo nascosto nel mettere sulla testa del Re dei Re quella corona: annullarlo in modo totale, privandolo del senno. La corona di acanto (acanto in greco significa spina) di per sé può non essere una tortura insopportabile, ma se su di essa vi si percuote con una canna, ecco che le spine penetrano nel cuoio capelluto e nella cute procurando sicuramente un dolore intenso e tormentoso; oltre alla fuoriuscita di sangue che gocciolando sugli occhi procuravano un ulteriore motivo di sofferenza a causa delle mani legate e quindi della impossibilità di detergerlo. Per un uomo poi che non aveva praticamente dormito l’intera notte precedente, che aveva le mani legate dietro la schiena, stordito dalla flagellazione subita e dai colpi in testa, pugni, schiaffi che i soldati non gli risparmiavano, questa corona doveva pesare come una montagna su di Lui. E tutto questo se si considera solo la natura umana di Gesù, senza includere la natura divina di Lui.
Nel secondo passaggio cerco di concentrarmi sulla flagellazione e sui pugni, sui calci ma soprattutto sulla flagellazione subita da Nostro Signore.
(Matteo cap. 27)[26]Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.
(Marco cap. 15)[15]E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
(Giovanni cap. 19)[1]Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. Come avveniva la flagellazione? Poteva essere flagellato uno condannato dal giudice alla pena di morte. Ma mentre il cittadino romano veniva flagellato con le verghe , per lo straniero veniva usato il flagello. Per la flagellazione il condannato veniva spogliato delle vesti, legato ad un palo o ad una colonna e fustigato da più persone, spesso fino a che le sue carni cadevano a brandelli. La flagellazione stessa era talvolta causa di morte. Il flagello erano delle strisce di cuoio cui in cima alle strisce di cuoio erano legati degli ossicini o dei pezzi di piombo. Ma non basta. Lo riempirono pure di botte, tanto da provocargli ecchimosi e la frattura del naso come attesta la Sindone, ammesso che sia essa il lenzuolo in cui fu avvolto il corpo di Gesù. La stessa Sindone ci informa pure dei segni lasciati sulle spalle dai colpi di scudiscio. (Marco cap. 14)I servi intanto lo percuotevano… (Matteo cap. 26)[67]Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, (Luca cap. 22) [63]Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, [64]lo bendavano e gli dicevano: «Indovina: chi ti ha colpito?». Nota a Lc. 22,64 “Gesù ha il volto coperto da un velo, perché gli oltraggi diventino in Lc un gioco a indovinello, molto conosciuto nel mondo antico e in tutti i tempi.”
Tutte queste torture inflitte a Gesù, insieme con la angoscia mortale del Getsemani e la notte insonne, furono, probabilmente, la causa della sua estrema debolezza e la incapacità di portare la croce, fosse pure solo la parte orizzontale di essa, chiamata pathibulum. Ogni condannato doveva portare con sé la parte orizzontale della croce, mentre la parte verticale di essa era fissa sul luogo del patibolo e veniva usata per più esecuzioni. Il condannato spesso era stremato dalle torture subite e non era in grado di portare il pathibulum. In questa evenienza ai soldati era consentito ordinare ( e l’ordine doveva essere prontamente eseguito) ad uno dei curiosi, che non mancavano a questi spettacoli, di caricarsi l’asta della croce fino al luogo della crocifissione. Gesù era, come uomo, ormai distrutto, fisicamente persino incapace di reggersi in piedi tanto da costringere i soldati a requisire un passante, Simone di Cirene, a portare lui la trave fino al Golgota. Gesù era talmente debole e sfinito che i soldati lo dovettero portare, forse quasi di peso ( Il verbo greco usato dall’Evangelista è fero, che significa portare.) In parole povere Gesù fu vittima di una violenza oggi inconcepibile: noi non riusciamo neppure ad immaginare, nel nostro mondo odierno, violento per altri versi, ma in certo qual modo umanitario, un comportamento così violento ed inumano e per di più rispettoso della legalità. Sì, perché il tutto avvenne nel rispetto della più scrupolosa legalità. Il procuratore romano aveva sostanzialmente diritto di vita e di morte su tutti i cittadini a lui sottoposti. Ponzio Pilato è stato accusato di molti crimini ma non di avere illegalmente condannato a morte Gesù o qualche altro.
Nel terzo passaggio concentro la mia attenzione sull’atto della crocifissione, cominciando dall’inchiodamento della sua mano sinistra al legno della Croce. Innanzi tutto, prima di essere fatto sdraiare con le braccia distese sul pathibulum, Gesù fu privato delle sua vesti. Il condannato alla crocifissione veniva denudato, prima di essere appeso. Gesù, quindi, fu spogliato. Sembrerebbe un atto da poco, soprattutto in questi tempi in cui per la moda più che vestirci ci denudiamo, specialmente il, così detto, sesso debole. Ma proviamo ad immaginarci i sentimenti di chi viene spogliato in pubblico, davanti a tutti, privo di vestiti di fronte ad una folla certamente ostile!! Gesù venne privato della sua dignità di uomo! Vestito puoi essere qualcuno , ma privato dei vestiti hai la sensazione di essere solo un verme, non hai più difesa, sei totalmente in balìa dei tuoi aguzzini. Se conservi ancora un briciolo di dignità, nudo in pubblico sei privo di ogni difesa: non sei più un uomo, sei solo una cosa. E questo lato della psicologia dell’uomo ben la conoscevano i nazisti nei campi di sterminio dove per prima cosa facevano denudare gli ebrei al fine di fiaccare in loro ogni residuo sentimento di orgoglio e di dignità: peggio di questo c’è solo la morte e per questo, dopo questo trattamento, ogni resistenza spariva. E, forse, si cominciava a vedere la morte come una liberazione.
Ma torniamo ora all’atto dell’ “inchiodamento”. Gesù fu fatto sdraiare supino per terra con le mani distese sul Pathibulum, come abbiamo già detto. Uno dei carnefici inchiodava il polso del condannato al legno, dopo averglielo legato per evitare che spostasse il braccio. Sembra semplice, ma non lo è. Innanzi tutto veniva inchiodato il polso e non il palmo della mano perché questa si sarebbe lacerata sotto il peso stesso del condannato. Inoltre essendo il chiodo lungo circa 18 cm. ed, essendo fatto alla forgia, non era certamente liscio, ma di sezione quadrangolare, ruvido, appuntito con una grossa testa per essere facilmente colpito dal grosso martello usato dal carnefice. (Ho sotto gli occhi la figura di un uomo inginocchiato con in mano un grosso martello che, con evidente forza e decisione, pianta un chiodo sul legno. Forse questa figura mi viene da un quadro di un pittore fiammingo ed in cui il personaggio non sta inchiodando un condannato, ma amo pensare che colui che piantò in chiodi a Gesù avesse lo stesso atteggiamento di totale dedizione al proprio lavoro, di eseguire tale operazione con il dovuto e professionale impegno, senza risparmiarsi. E tale doveva essere l’impegno nel lavoro degli aguzzini di Gesù).
Dopo il polso sinistro, quello destro. Il polso destro è il quarto momento di riflessione. Per quanto sfinito ed esausto Gesù non era certamente del tutto insensibile e quel chiodo che penetrava lentamente ad ogni colpo di martello nelle sue carni, non poteva non provocare un dolore straziante. Solo l’immenso amore che Gesù portava al Padre, la sovrannaturale obbedienza di figlio, potevano fargli sopportare questo dolore fisico e non solo. Lui si era volontariamente caricato dei peccati dell’umanità e senza un lamento, “come pecora condotta al macello”, si lasciava crocifiggere. Si lasciava volontariamente crocifiggere. Se un uomo subisce passivamente un atto violento, o comunque spiacevole, non potendolo evitare compie una atto meritorio, ma se lo subisce potendolo evitare…… E Gesù, il Figlio di Dio incarnato, Dio stesso, poteva evitarlo, poteva mandare le legioni dei suoi angeli a salvarlo, se appena lo avesse voluto. Ma non lo VOLLE. Gesù non amava la sofferenza, ma accettava la sofferenza solo in obbedienza assoluta verso la volontà del Padre. Egli era cosciente di compiere un atto d’amore verso l’umanità condannata dal peccato, per darle un motivo di speranza ed una redenzione dalla ombra di morte che la sovrastava dal principio dei tempi. Io, insieme a tutta l’umanità peccatrice, sono quello che col martello in mano configgevo il lungo chiodo nelle carni del mio Creatore e Redentore, sono io che con i miei peccati ripetuti, come ripetuti erano i colpi di martello, l’ho crocifisso; sono io che l’ho messo a nudo per umiliarlo, per privarlo di ogni difesa.
Fissati i due polsi al legno del “Pathibulum”, bisognava innalzarlo lungo il legno verticale fino a che i piedi non toccavano più terra. Questo veniva fatto con delle corde e delle scale. Questa operazione era un altro motivo di sofferenza per il condannato che, fino a quando anche i piedi non erano fissati al legno, doveva reggere il peso del proprio corpo sui chiodi infissi nei suoi polsi. Certamente i carnefici mentre lo innalzavano da terra, lo sorreggevano per le gambe fino che anche i piedi non venivano inchiodati. A me sembra un’operazione difficile e complicata, ma, anche se fatta da mani esperte, aggravava comunque ancora di più la sofferenza. Una volta innalzato con i piedi al di sopra del suolo e inchiodati, l’operazione si poteva dire conclusa.
E’ questo il quinto momento di riflessione. I piedi venivano inchiodati separatamente o assieme. Nella mia preghiera io li considero inchiodati separatamente e ogni chiodo piantato nelle carni di Nostro Signore Gesù Cristo è, per me, un motivo di riflessione e preghiera. Penso che quei piedi che avevano percorso la Galilea e la Giudea annunziando la lieta novella ai poveri e ai diseredati, che avevano recato dappertutto conforto e amore, che erano stati a contatto della polvere delle strade e delle miserie del mondo, quei piedi ora sono immobilizzati sulla croce. Quei piedi che erano stati lavati dalle lacrime della peccatrice, che furono asciugati dai capelli di lei, ora erano bloccati affinché non potessero fare più del bene. Il mondo aveva fatto la sua vendetta del messaggio incomprensibile d’amore predicato e messo in pratica da Gesù: non poteva tollerare oltre che la sua catechesi fosse messa in dubbio e sovvertita. Nella sua cecità il mondo aveva inteso mettere a tacere quella voce, quel corpo, quelle membra.
Il sesto momento è uguale al quinto nella riflessione e considerazione di quei piedi che avevano sorretto e sostenuto umanamente il Figlio di Dio e di cui Lui si era servito per far conoscere a tutti gli uomini di buona volontà il lieto annunzio.
I condannati alla pena della croce morivano in seguito ad asfissia: il peso dei visceri addominali abbassavano il diaframma rendendo difficile la respirazione che avveniva quasi esclusivamente facendo sforzo sui muscoli intercostali. In quasi tutti i crocifissi che circolano, grandi o piccini, l’addome di Gesù appare piatto se non addirittura infossato. Penso che questa immagine non corrisponda al vero, perché i visceri addominali,nello spasmo della sofferenza, scendevano in basso riempiendo tutta la cavità pelvica e trascinando verso il basso anche il diaframma. In queste condizioni il crocifisso per respirare doveva fare affidamento esclusivamente sui suoi muscoli intercostali. Per cercare di ovviare, almeno in parte e momentaneamente, a questa “fame d’aria” il crocifisso appoggiava il peso del corpo sui piedi inchiodati riuscendo in questo modo ad inspirare ed espirare. Questo comportava, come è comprensibile, un dolore acuto e straziante sui piedi senza per questo ottenere un gran sollievo alla fame d’aria. La morte sopraggiungeva non troppo presto e avveniva o per insufficienza respiratoria o per tetanizzazione dei muscoli intercostali che affaticati e pieni di acido lattico alla fine si rifiutavano di funzionare conducendo alla morte il suppliziato. Allo scopo di impedirgli di usare l’espediente di poggiare il peso del proprio corpo sui piedi inchiodati, al condannato, allo scopo anche di abbreviare le sue sofferenze, venivano spezzate le gambe. A Gesù questo fu risparmiato, ma tutto il resto il Nostro Signore dovette sopportarlo.
Il settimo ed ultimo momento di riflessione è il colpo di lancia che gli squarciò il costato. Pure da morto ebbe a sopportare gli insulti del mondo!!! Ma il Creatore del mondo non poteva essere sconfitto e anche da morto lanciò un altro messaggio. Il colpo di lancia fece uscire sangue ed acqua. Forse da un punto di vista anatomopatologico la fuoriuscita di sangue ed acqua è giustificato dal supplizio sopportato: prima le percosse dei servi del gran sacerdote, poi la flagellazione, il percorso al Golgota, per non parlare dell’angoscia mortale del Getsemani e la notte insonne. Nell’uomo della Sindone, che se non è Gesù gli rassomiglia molto, tutti questi supplizi hanno lasciato delle tracce più che evidenti. Sono reali ed evidenti le ecchimosi per le percosse, il naso rotto, uno zigomo tumefatto, ecchimosi ed escoriazioni in tutto il corpo. Questo sangue abbondantemente effuso mi fanno pensare a quale prezzo sono stato pagato, quale è stato il prezzo del mio riscatto. E l’acqua uscita dal tuo costato, Signore mio Dio, è l’acqua del mio battesimo che mi ha consacrato a Te. Quest’acqua che non lascia in noi segni evidenti, ci ha segnati per l’eternità più ancora della circoncisione dei discendenti di Abramo. Quest’acqua che tutto lava e tutto purifica è sgorgata dal suo Corpo Santo per la nostra redenzione. E’ stata messa a nostra disposizione perché noi non si sia più lontani da Dio, ma immessi in questa acqua che ci avvolge completamente, possiamo essere diversi da quello che eravamo, non solo esternamente ma, sopratutto, spiritualmente.
Ed io Credo, Signore. La preghiera croata si termina infatti con la recita del simbolo della nostra fede, col credo.
Ho voluto raccontare fin ora delle sofferenze fisiche di Gesù, cioè della sua crocifissione. Spesso, pensando alla Passione di Cristo, ci capita di limitarla a quanto patì Gesù soprattutto dopo il suo arresto e ci dimentichiamo delle sue sofferenze prima dell’arresto, in particolare, le sue sofferenze dell’orto del Getsemani. Dobbiamo fare qualche passo indietro e precisamente alle tentazioni del deserto, dopo il battesimo di Gesù. (Lc. 4,13) “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato.” “Per ritornare al tempo fissato”, manco se dovesse riscuotere una cambiale, ecco che il diavolo si ripresenta a Gesù. Per dirgli cosa? Per dirgli: “ Ma chi te lo fa fare! Credi davvero di poter cambiare l’uomo? L’uomo è cattivo per natura e non cesserà mai di ribellarsi a te”. Che l’uomo sia continuamente attratto da male, non c’è dubbio, però ”laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm.5,20). S. Paolo ci conforta assicurandoci che quanto più satana cercherà di sedurre l’uomo, tanto più il Padre manderà sull’uomo grazia su grazia per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore.
Questa fu la tentazione di Gesù, certamente non marginale, ma sicuramente né determinante né la più pesante da sostenere da Gesù. C’è di peggio. In quella notte tragica nel giardino del Getsemani, Gesù cominciò ad essere attanagliato dalla paura, ad essere preso dall’angoscia. Confessiamocelo. Certe volte si è affacciata alla nostra mente l’idea che Gesù avesse avuto un attacco di pusillanimità, che gli fosse venuto a mancare il coraggio, quello fisico. Non che non ne avesse motivo conoscendo in anticipo la prova cui stava per essere sottoposto, ma, ciò non ostante, l’idea maligna stenta ad allontanarsi dalla mente. Non che non si tenti in tutti i modi di cancellarla dalla mente, ma ritorna sempre più petulante. Eppure, se noi andiamo un più a fondo, vediamo che il nostro sospetto è del tutto infondato.
Nel Getsemani Gesù (Mt 26,38) Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». - (Lc. 22,41) ”Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: [42]«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà. Ecco Gesù qui è preso da una paura mortale, da un’angoscia indicibile. Era paura per le sofferenze che sapeva di dover subire? Certamente Gesù aveva paura umanamente delle sofferenze che certamente non amava; ed anche la morte come uomo lo terrorizzava. Tutto ciò è molto comprensibile. Ma riguardo a questo momento di Gesù vorrei aprire una piccola parentesi. In una conversazione radiofonica ascoltata diversi anni fa da una stazione a diffusione locale, proprio in occasione della settimana Santa, fu sostenuta l’ipotesi che Gesù nel Getsemani abbia subito un infarto cardiaco. Non ho capito in base a quali dati clinici sia stata avanzata, diciamo così, questa diagnosi. Certamente il comportamento di Gesù da questo momento in poi appare come rallentato, quasi assente, a momenti. (Is. 53,7)Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. L’ipotesi dell’infarto non toglie ovviamente nulla alle sofferenze di Gesù, solo che le sue preghiere furono, almeno in una piccola parte, dal Padre esaudite.
Ma torniamo ancora all’angoscia di Gesù. Paolo nella sua lettera ai Galati afferma Gal 3,13… “diventando lui stesso(Gesù) maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno”. La crocifissione in Palestina non era certamente sconosciuta e Gesù sapeva di quale morte sarebbe dovuto morire: appeso al legno, sulla croce. Io sono portato a credere che non fosse la paura della morte, della sofferenza a creare l’angoscia in Gesù. L’idea di poter essere separato, seppure temporaneamente dall’amore del Padre, era per Lui fonte di angoscia e di terrore. Gesù che era vissuto in continuo contatto col Padre, Gesù che si ritirava, spesso all’alba, frequentemente tutta la notte, per pregare, per riunirsi in colloquio col Padre, ora doveva accettarne, non solo la separazione, ma perfino l’inimicizia. Era solo!! Questi sentimenti, io credo, ottenebravano angosciosamente l’animo di Gesù. E’ quella che Padre Cantalamessa ha chiamato psicologia del profondo. Entrare nel profondo, superare, per così dire, l’amore e l’ubbidienza filiale al Padre che rimanevano intatti, per mettere a nudo l’origine di quell’angoscia che attanagliava il cuore Gesù.
L’Apostolo Paolo ci dice, infatti: (2Cor 5,21) “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”. Tutto il peccato del mondo, quello passato, quello presente e anche quello futuro fu caricato sulle spalle di Gesù perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio. E’ stato il prezzo del mio riscatto. E’ il prezzo da Te pagato, o mio Gesù, perché io potessi rivolgermi a Dio chiamandolo “Padre”. Per quasi una giornata, dal Tuo arresto fino alla resa dello Spirito, il Padre Ti ha voltato le spalle personificando in Te tutto il male del mondo. Tutti noi peccatori eravamo tutti presenti a Te in quei momenti.
(Mat 27,46)”Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “ Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Fino a questo momento, mio Signore, sei stato silenzioso e muto come pecora condotta al macello, ma ora lanci questo grido che è preghiera (Sal 22,2) ”Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza: sono le parole del mio lamento” e contemporaneamente invocazione. Gesù sta per morire e si sente solo, si sente abbandonato. Ciascuno di noi, al momento della propria morte, spera di essere consolato dalla presenza di Gesù; e sa nel suo intimo che sarà così. Gesù invece muore solo, non ha la consolazione del Padre. Sulla Croce Gesù è la personificazione del male e tra il male e Dio non ci può essere contatto alcuno. Dio è sommo bene e in Lui non c’è neppure l’ombra del male, pertanto non poteva avere alcun contatto con colui che era la personificazione del male. Fin quando Gesù è ancora in vita, il Padre è lontano da lui, dopo che Gesù è morto, poiché “chi è morto, è ormai libero dal peccato” (Rom. 6,7), Dio ritorna ad essere il Padre suo.
Io credo che questa fosse l’angoscia mortale che attanagliava il cuore di Gesù. Cercava conforto negli Apostoli che, però erano oppressi dal sonno. (Mt.26,38) “Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. Il Signore Gesù cercava aiuto e conforto, ma l’uomo non gli ne ha dato. Per ben tre volte il Signore ha cercato consolazione, ma l’uomo ha preferito dormire. Non diciamo: ”Io non c’ero!” perché c’eravamo tutti. (Matteo cap. 26) [44]E lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. [45]Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l'ora nella quale il Figlio dell'uomo sarà consegnato in mano ai peccatori. [46]Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina».
NOTA. Devo confessare che questa mia lettura del testo non è l’unica possibile. Esegeti che hanno dedicato allo studio delle Sacre scritture la loro intiera vita, come Don Giovanni Deiana cui in particolare mi sto riferendo in questo momento, traducono “ Dio fece sacrificio di espiazione colui che non aveva conosciuto peccato”. Giustificando così la sua traduzione: “”Nei LXX infatti il termine αμαρτια (amartìa) assume sia il significato di peccato sia quello di “sacrificio di espiazione” dall’ebraico (hatta’t ) (G. Deiana Dai Sacrifici dell’Antico Testamento al Sacrificio di Cristo Pag.88 Edizione Urbaniana University Press 2002)
Gesù Crocifisso
Riflessioni
Uno dei ricordini, “souvenir”, per così dire, che mi sono portato dalla Croazia, quando ho visitato il santuario di Merjiugorie, è l’abitudine di recitare sette “Padre Nostro”, sette “Ave Maria” e sette “Gloria” seguiti dalla recita del Credo. Spesso faccio questa preghiera mentre cammino per strada, in viaggio o nei momenti in cui mi annoio: così unisco l’utile a dilettevole. Così facendo mi sembra di accompagnarmi a Gesù Crocifisso e di sentirmi meno solo. So che Gesù è, se io lo chiamo, sempre al mio fianco, ma in questo modo mi accompagno a Lui più intensamente. Allo scopo di contare tutte queste preghiere ripetitive e sostanzialmente noiose in quanto sempre uguali e monotone, ho preso l’abitudine di pensare al Cristo Crocifisso enumerandone via - via le piaghe.
Un’altra preghiera che recito spesso, specie dopo la Comunione, è quella di San Bonaventura (da Civita di Bagnoregio). In essa si dice: “ ....... vado considerando le Vostre cinque piaghe.......”. Ma la recita della preghiera croata prevede sette passaggi. Allora mi sono cercato altre due piaghe di Nostro Signore: e non ne mancano a chi le voglia cercare.
Col primo “passaggio”, cioè con la recita dei primo ”Padre, Ave e Gloria”, concentro la mia attenzione sulla corona di spine posta sul capo di Gesù. (Matteo cap. 27)29]e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra La testa del Figlio di Dio, degna più di tutti a portare la corona di Re, umiliata e ferita dalle spine di una corona intrecciata dalla soldataglia per scherno! Il Creatore del mondo torturato dalle sue stesse creature con un arbusto da lui creato per amore di quelle stesse creature!! La derisione di Gesù nel racconto della flagellazione non fu un fatto occasionale, un avvenimento superfluo ed ininfluente nel racconto della passione, esso fu voluto, quasi studiato in ogni particolare, programmato quasi in modo scientifico ed attuato in modo da umiliare il Figlio di Dio, per decretarne agli occhi del mondo la sua sconfitta e la sua inconsistenza. “Altro che Figlio di Dio”, sembravano dire, “è un povero illuso e scemo che si è messo in testa delle idee e dei progetti più grandi di lui. Guardatelo ora!!” Re per burla, lo proclamano i soldati dopo che Erode lo aveva dichiarato un buffone, un uomo da burla(Luca cap. 23)[11]Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In modo quasi scientifico, dicevamo. E certamente sa di studio psicologico il colpire la sede dell’intelligenza, il posto dove si generano le idee: colpire la mente è annullare l’uomo, renderlo un nulla. E questo era lo scopo nascosto nel mettere sulla testa del Re dei Re quella corona: annullarlo in modo totale, privandolo del senno. La corona di acanto (acanto in greco significa spina) di per sé può non essere una tortura insopportabile, ma se su di essa vi si percuote con una canna, ecco che le spine penetrano nel cuoio capelluto e nella cute procurando sicuramente un dolore intenso e tormentoso; oltre alla fuoriuscita di sangue che gocciolando sugli occhi procuravano un ulteriore motivo di sofferenza a causa delle mani legate e quindi della impossibilità di detergerlo. Per un uomo poi che non aveva praticamente dormito l’intera notte precedente, che aveva le mani legate dietro la schiena, stordito dalla flagellazione subita e dai colpi in testa, pugni, schiaffi che i soldati non gli risparmiavano, questa corona doveva pesare come una montagna su di Lui. E tutto questo se si considera solo la natura umana di Gesù, senza includere la natura divina di Lui.
Nel secondo passaggio cerco di concentrarmi sulla flagellazione e sui pugni, sui calci ma soprattutto sulla flagellazione subita da Nostro Signore.
(Matteo cap. 27)[26]Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.
(Marco cap. 15)[15]E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
(Giovanni cap. 19)[1]Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. Come avveniva la flagellazione? Poteva essere flagellato uno condannato dal giudice alla pena di morte. Ma mentre il cittadino romano veniva flagellato con le verghe , per lo straniero veniva usato il flagello. Per la flagellazione il condannato veniva spogliato delle vesti, legato ad un palo o ad una colonna e fustigato da più persone, spesso fino a che le sue carni cadevano a brandelli. La flagellazione stessa era talvolta causa di morte. Il flagello erano delle strisce di cuoio cui in cima alle strisce di cuoio erano legati degli ossicini o dei pezzi di piombo. Ma non basta. Lo riempirono pure di botte, tanto da provocargli ecchimosi e la frattura del naso come attesta la Sindone, ammesso che sia essa il lenzuolo in cui fu avvolto il corpo di Gesù. La stessa Sindone ci informa pure dei segni lasciati sulle spalle dai colpi di scudiscio. (Marco cap. 14)I servi intanto lo percuotevano… (Matteo cap. 26)[67]Allora gli sputarono in faccia e lo schiaffeggiarono; altri lo bastonavano, (Luca cap. 22) [63]Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, [64]lo bendavano e gli dicevano: «Indovina: chi ti ha colpito?». Nota a Lc. 22,64 “Gesù ha il volto coperto da un velo, perché gli oltraggi diventino in Lc un gioco a indovinello, molto conosciuto nel mondo antico e in tutti i tempi.”
Tutte queste torture inflitte a Gesù, insieme con la angoscia mortale del Getsemani e la notte insonne, furono, probabilmente, la causa della sua estrema debolezza e la incapacità di portare la croce, fosse pure solo la parte orizzontale di essa, chiamata pathibulum. Ogni condannato doveva portare con sé la parte orizzontale della croce, mentre la parte verticale di essa era fissa sul luogo del patibolo e veniva usata per più esecuzioni. Il condannato spesso era stremato dalle torture subite e non era in grado di portare il pathibulum. In questa evenienza ai soldati era consentito ordinare ( e l’ordine doveva essere prontamente eseguito) ad uno dei curiosi, che non mancavano a questi spettacoli, di caricarsi l’asta della croce fino al luogo della crocifissione. Gesù era, come uomo, ormai distrutto, fisicamente persino incapace di reggersi in piedi tanto da costringere i soldati a requisire un passante, Simone di Cirene, a portare lui la trave fino al Golgota. Gesù era talmente debole e sfinito che i soldati lo dovettero portare, forse quasi di peso ( Il verbo greco usato dall’Evangelista è fero, che significa portare.) In parole povere Gesù fu vittima di una violenza oggi inconcepibile: noi non riusciamo neppure ad immaginare, nel nostro mondo odierno, violento per altri versi, ma in certo qual modo umanitario, un comportamento così violento ed inumano e per di più rispettoso della legalità. Sì, perché il tutto avvenne nel rispetto della più scrupolosa legalità. Il procuratore romano aveva sostanzialmente diritto di vita e di morte su tutti i cittadini a lui sottoposti. Ponzio Pilato è stato accusato di molti crimini ma non di avere illegalmente condannato a morte Gesù o qualche altro.
Nel terzo passaggio concentro la mia attenzione sull’atto della crocifissione, cominciando dall’inchiodamento della sua mano sinistra al legno della Croce. Innanzi tutto, prima di essere fatto sdraiare con le braccia distese sul pathibulum, Gesù fu privato delle sua vesti. Il condannato alla crocifissione veniva denudato, prima di essere appeso. Gesù, quindi, fu spogliato. Sembrerebbe un atto da poco, soprattutto in questi tempi in cui per la moda più che vestirci ci denudiamo, specialmente il, così detto, sesso debole. Ma proviamo ad immaginarci i sentimenti di chi viene spogliato in pubblico, davanti a tutti, privo di vestiti di fronte ad una folla certamente ostile!! Gesù venne privato della sua dignità di uomo! Vestito puoi essere qualcuno , ma privato dei vestiti hai la sensazione di essere solo un verme, non hai più difesa, sei totalmente in balìa dei tuoi aguzzini. Se conservi ancora un briciolo di dignità, nudo in pubblico sei privo di ogni difesa: non sei più un uomo, sei solo una cosa. E questo lato della psicologia dell’uomo ben la conoscevano i nazisti nei campi di sterminio dove per prima cosa facevano denudare gli ebrei al fine di fiaccare in loro ogni residuo sentimento di orgoglio e di dignità: peggio di questo c’è solo la morte e per questo, dopo questo trattamento, ogni resistenza spariva. E, forse, si cominciava a vedere la morte come una liberazione.
Ma torniamo ora all’atto dell’ “inchiodamento”. Gesù fu fatto sdraiare supino per terra con le mani distese sul Pathibulum, come abbiamo già detto. Uno dei carnefici inchiodava il polso del condannato al legno, dopo averglielo legato per evitare che spostasse il braccio. Sembra semplice, ma non lo è. Innanzi tutto veniva inchiodato il polso e non il palmo della mano perché questa si sarebbe lacerata sotto il peso stesso del condannato. Inoltre essendo il chiodo lungo circa 18 cm. ed, essendo fatto alla forgia, non era certamente liscio, ma di sezione quadrangolare, ruvido, appuntito con una grossa testa per essere facilmente colpito dal grosso martello usato dal carnefice. (Ho sotto gli occhi la figura di un uomo inginocchiato con in mano un grosso martello che, con evidente forza e decisione, pianta un chiodo sul legno. Forse questa figura mi viene da un quadro di un pittore fiammingo ed in cui il personaggio non sta inchiodando un condannato, ma amo pensare che colui che piantò in chiodi a Gesù avesse lo stesso atteggiamento di totale dedizione al proprio lavoro, di eseguire tale operazione con il dovuto e professionale impegno, senza risparmiarsi. E tale doveva essere l’impegno nel lavoro degli aguzzini di Gesù).
Dopo il polso sinistro, quello destro. Il polso destro è il quarto momento di riflessione. Per quanto sfinito ed esausto Gesù non era certamente del tutto insensibile e quel chiodo che penetrava lentamente ad ogni colpo di martello nelle sue carni, non poteva non provocare un dolore straziante. Solo l’immenso amore che Gesù portava al Padre, la sovrannaturale obbedienza di figlio, potevano fargli sopportare questo dolore fisico e non solo. Lui si era volontariamente caricato dei peccati dell’umanità e senza un lamento, “come pecora condotta al macello”, si lasciava crocifiggere. Si lasciava volontariamente crocifiggere. Se un uomo subisce passivamente un atto violento, o comunque spiacevole, non potendolo evitare compie una atto meritorio, ma se lo subisce potendolo evitare…… E Gesù, il Figlio di Dio incarnato, Dio stesso, poteva evitarlo, poteva mandare le legioni dei suoi angeli a salvarlo, se appena lo avesse voluto. Ma non lo VOLLE. Gesù non amava la sofferenza, ma accettava la sofferenza solo in obbedienza assoluta verso la volontà del Padre. Egli era cosciente di compiere un atto d’amore verso l’umanità condannata dal peccato, per darle un motivo di speranza ed una redenzione dalla ombra di morte che la sovrastava dal principio dei tempi. Io, insieme a tutta l’umanità peccatrice, sono quello che col martello in mano configgevo il lungo chiodo nelle carni del mio Creatore e Redentore, sono io che con i miei peccati ripetuti, come ripetuti erano i colpi di martello, l’ho crocifisso; sono io che l’ho messo a nudo per umiliarlo, per privarlo di ogni difesa.
Fissati i due polsi al legno del “Pathibulum”, bisognava innalzarlo lungo il legno verticale fino a che i piedi non toccavano più terra. Questo veniva fatto con delle corde e delle scale. Questa operazione era un altro motivo di sofferenza per il condannato che, fino a quando anche i piedi non erano fissati al legno, doveva reggere il peso del proprio corpo sui chiodi infissi nei suoi polsi. Certamente i carnefici mentre lo innalzavano da terra, lo sorreggevano per le gambe fino che anche i piedi non venivano inchiodati. A me sembra un’operazione difficile e complicata, ma, anche se fatta da mani esperte, aggravava comunque ancora di più la sofferenza. Una volta innalzato con i piedi al di sopra del suolo e inchiodati, l’operazione si poteva dire conclusa.
E’ questo il quinto momento di riflessione. I piedi venivano inchiodati separatamente o assieme. Nella mia preghiera io li considero inchiodati separatamente e ogni chiodo piantato nelle carni di Nostro Signore Gesù Cristo è, per me, un motivo di riflessione e preghiera. Penso che quei piedi che avevano percorso la Galilea e la Giudea annunziando la lieta novella ai poveri e ai diseredati, che avevano recato dappertutto conforto e amore, che erano stati a contatto della polvere delle strade e delle miserie del mondo, quei piedi ora sono immobilizzati sulla croce. Quei piedi che erano stati lavati dalle lacrime della peccatrice, che furono asciugati dai capelli di lei, ora erano bloccati affinché non potessero fare più del bene. Il mondo aveva fatto la sua vendetta del messaggio incomprensibile d’amore predicato e messo in pratica da Gesù: non poteva tollerare oltre che la sua catechesi fosse messa in dubbio e sovvertita. Nella sua cecità il mondo aveva inteso mettere a tacere quella voce, quel corpo, quelle membra.
Il sesto momento è uguale al quinto nella riflessione e considerazione di quei piedi che avevano sorretto e sostenuto umanamente il Figlio di Dio e di cui Lui si era servito per far conoscere a tutti gli uomini di buona volontà il lieto annunzio.
I condannati alla pena della croce morivano in seguito ad asfissia: il peso dei visceri addominali abbassavano il diaframma rendendo difficile la respirazione che avveniva quasi esclusivamente facendo sforzo sui muscoli intercostali. In quasi tutti i crocifissi che circolano, grandi o piccini, l’addome di Gesù appare piatto se non addirittura infossato. Penso che questa immagine non corrisponda al vero, perché i visceri addominali,nello spasmo della sofferenza, scendevano in basso riempiendo tutta la cavità pelvica e trascinando verso il basso anche il diaframma. In queste condizioni il crocifisso per respirare doveva fare affidamento esclusivamente sui suoi muscoli intercostali. Per cercare di ovviare, almeno in parte e momentaneamente, a questa “fame d’aria” il crocifisso appoggiava il peso del corpo sui piedi inchiodati riuscendo in questo modo ad inspirare ed espirare. Questo comportava, come è comprensibile, un dolore acuto e straziante sui piedi senza per questo ottenere un gran sollievo alla fame d’aria. La morte sopraggiungeva non troppo presto e avveniva o per insufficienza respiratoria o per tetanizzazione dei muscoli intercostali che affaticati e pieni di acido lattico alla fine si rifiutavano di funzionare conducendo alla morte il suppliziato. Allo scopo di impedirgli di usare l’espediente di poggiare il peso del proprio corpo sui piedi inchiodati, al condannato, allo scopo anche di abbreviare le sue sofferenze, venivano spezzate le gambe. A Gesù questo fu risparmiato, ma tutto il resto il Nostro Signore dovette sopportarlo.
Il settimo ed ultimo momento di riflessione è il colpo di lancia che gli squarciò il costato. Pure da morto ebbe a sopportare gli insulti del mondo!!! Ma il Creatore del mondo non poteva essere sconfitto e anche da morto lanciò un altro messaggio. Il colpo di lancia fece uscire sangue ed acqua. Forse da un punto di vista anatomopatologico la fuoriuscita di sangue ed acqua è giustificato dal supplizio sopportato: prima le percosse dei servi del gran sacerdote, poi la flagellazione, il percorso al Golgota, per non parlare dell’angoscia mortale del Getsemani e la notte insonne. Nell’uomo della Sindone, che se non è Gesù gli rassomiglia molto, tutti questi supplizi hanno lasciato delle tracce più che evidenti. Sono reali ed evidenti le ecchimosi per le percosse, il naso rotto, uno zigomo tumefatto, ecchimosi ed escoriazioni in tutto il corpo. Questo sangue abbondantemente effuso mi fanno pensare a quale prezzo sono stato pagato, quale è stato il prezzo del mio riscatto. E l’acqua uscita dal tuo costato, Signore mio Dio, è l’acqua del mio battesimo che mi ha consacrato a Te. Quest’acqua che non lascia in noi segni evidenti, ci ha segnati per l’eternità più ancora della circoncisione dei discendenti di Abramo. Quest’acqua che tutto lava e tutto purifica è sgorgata dal suo Corpo Santo per la nostra redenzione. E’ stata messa a nostra disposizione perché noi non si sia più lontani da Dio, ma immessi in questa acqua che ci avvolge completamente, possiamo essere diversi da quello che eravamo, non solo esternamente ma, sopratutto, spiritualmente.
Ed io Credo, Signore. La preghiera croata si termina infatti con la recita del simbolo della nostra fede, col credo.
Ho voluto raccontare fin ora delle sofferenze fisiche di Gesù, cioè della sua crocifissione. Spesso, pensando alla Passione di Cristo, ci capita di limitarla a quanto patì Gesù soprattutto dopo il suo arresto e ci dimentichiamo delle sue sofferenze prima dell’arresto, in particolare, le sue sofferenze dell’orto del Getsemani. Dobbiamo fare qualche passo indietro e precisamente alle tentazioni del deserto, dopo il battesimo di Gesù. (Lc. 4,13) “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato.” “Per ritornare al tempo fissato”, manco se dovesse riscuotere una cambiale, ecco che il diavolo si ripresenta a Gesù. Per dirgli cosa? Per dirgli: “ Ma chi te lo fa fare! Credi davvero di poter cambiare l’uomo? L’uomo è cattivo per natura e non cesserà mai di ribellarsi a te”. Che l’uomo sia continuamente attratto da male, non c’è dubbio, però ”laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm.5,20). S. Paolo ci conforta assicurandoci che quanto più satana cercherà di sedurre l’uomo, tanto più il Padre manderà sull’uomo grazia su grazia per i meriti di Gesù Cristo nostro Signore.
Questa fu la tentazione di Gesù, certamente non marginale, ma sicuramente né determinante né la più pesante da sostenere da Gesù. C’è di peggio. In quella notte tragica nel giardino del Getsemani, Gesù cominciò ad essere attanagliato dalla paura, ad essere preso dall’angoscia. Confessiamocelo. Certe volte si è affacciata alla nostra mente l’idea che Gesù avesse avuto un attacco di pusillanimità, che gli fosse venuto a mancare il coraggio, quello fisico. Non che non ne avesse motivo conoscendo in anticipo la prova cui stava per essere sottoposto, ma, ciò non ostante, l’idea maligna stenta ad allontanarsi dalla mente. Non che non si tenti in tutti i modi di cancellarla dalla mente, ma ritorna sempre più petulante. Eppure, se noi andiamo un più a fondo, vediamo che il nostro sospetto è del tutto infondato.
Nel Getsemani Gesù (Mt 26,38) Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». - (Lc. 22,41) ”Poi si allontanò da loro quasi un tiro di sasso e, inginocchiatosi, pregava: [42]«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà. Ecco Gesù qui è preso da una paura mortale, da un’angoscia indicibile. Era paura per le sofferenze che sapeva di dover subire? Certamente Gesù aveva paura umanamente delle sofferenze che certamente non amava; ed anche la morte come uomo lo terrorizzava. Tutto ciò è molto comprensibile. Ma riguardo a questo momento di Gesù vorrei aprire una piccola parentesi. In una conversazione radiofonica ascoltata diversi anni fa da una stazione a diffusione locale, proprio in occasione della settimana Santa, fu sostenuta l’ipotesi che Gesù nel Getsemani abbia subito un infarto cardiaco. Non ho capito in base a quali dati clinici sia stata avanzata, diciamo così, questa diagnosi. Certamente il comportamento di Gesù da questo momento in poi appare come rallentato, quasi assente, a momenti. (Is. 53,7)Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. L’ipotesi dell’infarto non toglie ovviamente nulla alle sofferenze di Gesù, solo che le sue preghiere furono, almeno in una piccola parte, dal Padre esaudite.
Ma torniamo ancora all’angoscia di Gesù. Paolo nella sua lettera ai Galati afferma Gal 3,13… “diventando lui stesso(Gesù) maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno”. La crocifissione in Palestina non era certamente sconosciuta e Gesù sapeva di quale morte sarebbe dovuto morire: appeso al legno, sulla croce. Io sono portato a credere che non fosse la paura della morte, della sofferenza a creare l’angoscia in Gesù. L’idea di poter essere separato, seppure temporaneamente dall’amore del Padre, era per Lui fonte di angoscia e di terrore. Gesù che era vissuto in continuo contatto col Padre, Gesù che si ritirava, spesso all’alba, frequentemente tutta la notte, per pregare, per riunirsi in colloquio col Padre, ora doveva accettarne, non solo la separazione, ma perfino l’inimicizia. Era solo!! Questi sentimenti, io credo, ottenebravano angosciosamente l’animo di Gesù. E’ quella che Padre Cantalamessa ha chiamato psicologia del profondo. Entrare nel profondo, superare, per così dire, l’amore e l’ubbidienza filiale al Padre che rimanevano intatti, per mettere a nudo l’origine di quell’angoscia che attanagliava il cuore Gesù.
L’Apostolo Paolo ci dice, infatti: (2Cor 5,21) “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”. Tutto il peccato del mondo, quello passato, quello presente e anche quello futuro fu caricato sulle spalle di Gesù perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio. E’ stato il prezzo del mio riscatto. E’ il prezzo da Te pagato, o mio Gesù, perché io potessi rivolgermi a Dio chiamandolo “Padre”. Per quasi una giornata, dal Tuo arresto fino alla resa dello Spirito, il Padre Ti ha voltato le spalle personificando in Te tutto il male del mondo. Tutti noi peccatori eravamo tutti presenti a Te in quei momenti.
(Mat 27,46)”Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: “ Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Fino a questo momento, mio Signore, sei stato silenzioso e muto come pecora condotta al macello, ma ora lanci questo grido che è preghiera (Sal 22,2) ”Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza: sono le parole del mio lamento” e contemporaneamente invocazione. Gesù sta per morire e si sente solo, si sente abbandonato. Ciascuno di noi, al momento della propria morte, spera di essere consolato dalla presenza di Gesù; e sa nel suo intimo che sarà così. Gesù invece muore solo, non ha la consolazione del Padre. Sulla Croce Gesù è la personificazione del male e tra il male e Dio non ci può essere contatto alcuno. Dio è sommo bene e in Lui non c’è neppure l’ombra del male, pertanto non poteva avere alcun contatto con colui che era la personificazione del male. Fin quando Gesù è ancora in vita, il Padre è lontano da lui, dopo che Gesù è morto, poiché “chi è morto, è ormai libero dal peccato” (Rom. 6,7), Dio ritorna ad essere il Padre suo.
Io credo che questa fosse l’angoscia mortale che attanagliava il cuore di Gesù. Cercava conforto negli Apostoli che, però erano oppressi dal sonno. (Mt.26,38) “Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me”. Il Signore Gesù cercava aiuto e conforto, ma l’uomo non gli ne ha dato. Per ben tre volte il Signore ha cercato consolazione, ma l’uomo ha preferito dormire. Non diciamo: ”Io non c’ero!” perché c’eravamo tutti. (Matteo cap. 26) [44]E lasciatili, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. [45]Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite ormai e riposate! Ecco, è giunta l'ora nella quale il Figlio dell'uomo sarà consegnato in mano ai peccatori. [46]Alzatevi, andiamo; ecco, colui che mi tradisce si avvicina».
NOTA. Devo confessare che questa mia lettura del testo non è l’unica possibile. Esegeti che hanno dedicato allo studio delle Sacre scritture la loro intiera vita, come Don Giovanni Deiana cui in particolare mi sto riferendo in questo momento, traducono “ Dio fece sacrificio di espiazione colui che non aveva conosciuto peccato”. Giustificando così la sua traduzione: “”Nei LXX infatti il termine αμαρτια (amartìa) assume sia il significato di peccato sia quello di “sacrificio di espiazione” dall’ebraico (hatta’t ) (G. Deiana Dai Sacrifici dell’Antico Testamento al Sacrificio di Cristo Pag.88 Edizione Urbaniana University Press 2002)
V DOMENICA DI QUARESIMA
Questa settimana la Santa Liturgia ci propone dal Vangelo di Giovanni l'episodio dell'adultera e colgo l'occasione per inserire delle mie riflessioni sul brano scritto diverso tempo fa. Sono sempre in attesa di vostri sempre graditi commenti.
(Giovanni cap. 8)
[1]Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. [2]Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. [3]Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, [4]gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. [5]Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». [6]Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. [7]E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». [8]E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. [9]Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. [10]Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». [11]Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; và e d'ora in poi non peccare più». Questo bellissimo brano del Vangelo di Giovanni viene proposto spesso nella liturgia della Chiesa perché ci propone una situazione frequente nella vita del cristiano, sia sulla posizione dell’adultera sia in quella dei suoi accusatori. Il peccato, la trasgressione è chiara e manifesta: “ è stata sorpresa in fragrante adulterio”, non ci sono dubbi e neppure l’ accusata osa difendersi: secondo la Legge è colpevole.
Deuteronomio cap. 22)
[22]Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l'uomo che ha peccato con la donna e la donna. Così toglierai il male da Israele.
(Levitico cap. 20)
[10]Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l'adultero e l'adultera dovranno esser messi a morte.
Ecco cosa dispone la Legge mosaica invocata dagli accusatori in proposito. Senza alcun dubbio essi, i colpevoli di adulterio, meritano la morte! Era “adultera” la relazione sessuale tra un uomo sposato o no, e una donna sposata (o fidanzata), perché un tale rapporto offendeva il diritto di proprietà riconosciuto al marito sulla propria moglie.
Intanto però sorge un problema. Per commettere adulterio bisogna essere in due, mentre qui hanno trascinato di fronte a Gesù solo la donna. E l’uomo? Abbiamo visto per i due brani citati e riprodotti che la Legge è molto severa e radicale a tal riguardo: “Così toglierai il male da Israele” dice Mosè. Ci troviamo di fronte, oltre che a una giustizia carente, parziale, ad una vera e propria ingiustizia perpetrata ai danni della donna, solamente perché donna.
La condizione della donna, l’abbiamo visto altre volte, era di completa sottomissione. Essa era soggetta al padre fin quando restava in casa del genitore e una volta maritata essa diveniva proprietà assoluta del marito. Se vogliamo vedere uno spaccato della condizione della donna spulciamo nel Siracide (o Ecclesiatico), scritto appena cento – centocinquanta anni prima di Cristo, cosa ci dice della condizione femminile. Ne riproduco un brano emblematico:
(Siracide cap. 42)
[9]Una figlia è per il padre un'inquietudine segreta,
la preoccupazione per lei allontana il sonno:
nella sua giovinezza, perché non sfiorisca,
una volta accasata, perché non sia ripudiata.
[10]Finché è ragazza, si teme che sia sedotta
e che resti incinta nella casa paterna;
quando è con un marito, che cada in colpa,
quando è accasata, che sia sterile.
[11]Su una figlia indocile rafforza la vigilanza,
perché non ti renda scherno dei nemici,
oggetto di chiacchiere in città e favola della gente,
sì da farti vergognare davanti a tutti.
Un altro brano:
(Siracide cap. 9)
[9]Non sederti mai accanto a una donna sposata,
non frequentarla per bere insieme con lei
perché il tuo cuore non si innamori di lei
e per la tua passione tu non scivoli nella rovina.
Se andiamo a vedere anche altri libri o brani del Vecchio Testamento, l’opinione sulla condizione femminile sostanzialmente non cambia. Ci limitiamo a questi due. La donna non supera, non per suo volere naturalmente, la maggiore età se non con Gesù e il suo insegnamento di misericordia ed amore. Nel brano del Siracide, pare più che evidente che sul comportamento della donna neppure il proprio padre era disposto a dare credito; si doveva stare sempre in guardia per non cadere vittima dei suoi malefizi: essa era portata, per la sua stessa natura, a fare il male. A onor del vero nel Siracide si incontrano anche dei brani in cui si fa un elogio più che dovuto alla buona padrona di casa, alla donna virtuosa.
Ma, ritornando al nostro brano evangelico, l’aver tradotto di fronte a Gesù solo la donna aveva la sua giustificazione. Secondo i brani del Siracide citati, lei era colpevole di aver ammaliato e sedotto l’uomo.
[22]. Così toglierai il male da Israele. I giudici del racconto evangelico hanno indubbiamente ragione di tenersi saldi alla tradizione della Legge (eliminare il peccatore con il peccato) ma hanno torto nel bloccarla in un sistema che non lascia più spazio alle aperture che essa stessa contiene ed al Dio vivente che rende incessantemente nuove le letture che l’uomo fa delle Sacre Scritture. Essi preferiscono la lettura ben definita e definibile allo spirito della Legge. Non vogliono tenere conto della realtà dell’uomo (e della donna), della sua debolezza di fronte alla prepotenza della carne, della continua tentazione cui l’uomo è sottoposto in ogni momento della sua vita, e non necessariamente solo quelle della carne. I giudici si ritenevano i depositari, i custodi della Legge scritta e tramandata una volta per tutte, senza alcuna possibilità di penetrare nello spirito della legge (vedi la condanna di non molto tempo fa, aprile 2002, di quelle due donne, Safya Husseini e Amina Lawal in Nigeria, ma pare che ce ne siano a centenaria in tutta la Nigeria, povere creature, di religione musulmana condannate alla lapidazione. Certamente colpevoli, ma condannate secondo la legge della Shari’a, che è legge coranica inappellabile, senza nessuna apertura alla misericordia o almeno alla umana comprensione).
[3]Allora gli scribi e i farisei mettono la donna in piedi come un accusato, in mezzo al cerchio degli accusatori. Sembra di vedere la scena; il cerchio è chiuso da Gesù che si trova lì ad insegnare. Gesù è seduto, come si addice ad un giudice che si siede a giudicare. L’accusata posta in piedi in mezzo, al centro del cerchio, doveva attrarre gli occhi di tutti, scribi e farisei, severi nella loro accusa e duri nella condanna già emessa nel loro cuore. Ma non è così. Agli scribi e farisei della donna non importa nulla, a loro interessa l’atteggiamento di Gesù. A loro interessa solo mettere Gesù in difficoltà e screditarlo di fronte ai suoi seguaci. Hanno escogitato un tranello nel quale far cadere Gesù. Infatti portandogli una donna colta in fragrante adulterio hanno messo Gesù con le spalle al muro: se Gesù avesse usato clemenza alla donna, si sarebbe messo contro la legge di Mosè ed essere accusato di bestemmia e trascinarlo in giudizio di fronte al Sinedrio, oltre che inimicargli le folle ligie alla tradizioni della Legge; se avesse avvallato la loro sentenza, sempre secondo la Legge, avrebbe smentito tutta la sua predicazione e sarebbe apparso inaffidabile e poco credibile agli occhi di chi lo ascoltava e seguiva. Come aggiunta possiamo dire che se avesse emesso la sentenza di morte seduta stante si sarebbe messo contro l’autorità romana che non concedeva agli ebrei, neppure in nome della Legge divina, di emettere ed eseguire condanne a morte. Non c’è che dire: il tranello era ben congegnato. Che fosse un tranello teso a Gesù è dimostrato anche dal fatto che manca l’offeso, il marito o il fidanzato o il padre. Inoltre solo un tribunale regolare avrebbe potuto emettere la sentenza e non un Rabbi, un Maestro, per quanto autorevole. Era già stata emessa la condanna? Doveva solo trattarsi di eseguire la sentenza già pronunciata? Non c’è modo di capirlo dal testo; pertanto siamo portati credere che si sia trattato di un tranello teso a Gesù.
Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. Gesù però non risponde, cerca di tergiversare. Il vero accusato ora non è più la donna ma Gesù stesso, colui che avevano eletto a giudice; e lo avevano pure chiamato Maestro!. Tutti gli occhi sono puntati su Gesù in attesa di coglierlo in fallo. A sua volta Gesù più che dalla donna è colpito dalla durezza di quei cuori, chiusi alla misericordia. Non risponde loro ma si china a scrivere per terra. E cosa avrebbe potuto dire? “Razze di vipere che cercate nelle pieghe delle Legge per trovarvi la morte e non la vita.”? Non dice nulla, tace. E quelli ad insistere; sentono di averlo in pugno e non vogliono rinunciare.
Gesù alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». “Chi è senza peccato”. C’è qualcuno senza peccato?
(1Giovanni cap. 1)
[8]Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi.
Nessuno è senza peccato, tutti, dal peccato di Adamo in poi, siamo nel peccato. Ma Gesù non vuole la morte del peccatore ma il suo ravvedimento: “Chi di voi si sente senza peccato scagli la prima pietra”. Gesù usa misericordia verso gli scribi e i farisei consegnandoli alle loro proprie coscienze, a quella facoltà intuitiva in virtù della quale si giudica un atto compiuto o da compiere. Ciascuno si guarderà dentro, rivangherà i propri misfatti occulti, quelli che nascondiamo a noi stessi, nel nostro subconscio, e ne trarrà le dovute conseguenze. Quanti giudizi frettolosi, quante condanne impietose, magari non espressi se non nella nostra mente, che risorgono alla memoria come fantasmi dimenticati!!. Mettere a nudo il nostro “io”, la nostra personalità conosciuta solo da noi stessi e mai confessate o fatte apparire agli altri, per trovare dei peccati che non si possono neppure confessare perché non sono fatti, non sono avvenimenti ma giudizi, desideri, fantasie magari, che abbiamo accarezzato per un secondo in più prima di respingerla. Tutto questo ciascuno di noi, nessuno escluso, tiene gelosamente nascosto nelle pieghe della memoria e risuscitabile ad interrogazione di quella che noi chiamiamo “coscienza”, il nostro “io” nascosto agli altri ma non a noi stessi. Questo giudice che siede a giudicare dentro di noi che noi, ripeto chiamiamo coscienza, è spesso spietato e senza misericordia, più severo e intransigente della stessa Legge di Dio. A questa coscienza Gesù affidò scribi e farisei. Non li condannò. Gesù portò agli uomini il perdono escatologico (per l’eternità) e gratuito di Dio e non voleva condannarli, ma che si ravvedessero.
[9]Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Lasciano cadere dalle mani quelle pietre che avevano già raccolte per fare giustizia e se ne vanno mogi mogi con lo sguardo confuso e rivolto a terra come chi non vuol vedere e non vuole essere visto in faccia. Ad uno ad uno a cominciare dai più anziani nei quali, probabilmente, il cumulo della spazzatura è più alto.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Dice S. Agostino: “ Rimane solo la misera e la Misericordia” . Rimane il peccato ed il perdono. Il peccato rimane peccato, anche se viene perdonato.
[10]Alzatosi allora Gesù le disse: «Nessuno ti ha condannata?». [11]Ed essa rispose: «Nessuno, Signore».
Adesso anche Gesù si alza in piedi, come si conviene ad un giudice che sta per emettere la sentenza.
«Neanch'io ti condanno; Questa è la sentenza di Gesù. Ma << và e d'ora in poi non peccare più». Resisti cioè alla tentazione della carne. Gesù, uomo, conosce quali e quante sono le tentazioni cui l’uomo è sottoposto. [19] io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Dice S. Paolo nella lettera ai Romani. E’ talmente radicato in lui il male che l’uomo da solo è incapace di lottare e di vincere.
Agli scribi e farisei, nei quali ci riconosciamo se non tutti almeno una grande maggioranza, viene lasciato il compito di vigilare, di non giudicare mai, neppure quando tutto sembra chiaro. Quella donna sembrava colpevole? E se invece era lei la vittima di una qualche violenza, anche psicologica?
Comunque cerchiamo di non dimenticare mai ciò che ci dice Giacomo nella sua lettera.
(Giacomo cap. 2)
[13]il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio.
Saremo giudicati con lo stesso metro con cui noi avremo giudicato gli altri.
(Giovanni cap. 8)
[1]Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. [2]Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. [3]Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, [4]gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. [5]Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». [6]Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. [7]E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». [8]E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. [9]Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. [10]Alzatosi allora Gesù le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». [11]Ed essa rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù le disse: «Neanch'io ti condanno; và e d'ora in poi non peccare più». Questo bellissimo brano del Vangelo di Giovanni viene proposto spesso nella liturgia della Chiesa perché ci propone una situazione frequente nella vita del cristiano, sia sulla posizione dell’adultera sia in quella dei suoi accusatori. Il peccato, la trasgressione è chiara e manifesta: “ è stata sorpresa in fragrante adulterio”, non ci sono dubbi e neppure l’ accusata osa difendersi: secondo la Legge è colpevole.
Deuteronomio cap. 22)
[22]Quando un uomo verrà colto in fallo con una donna maritata, tutti e due dovranno morire: l'uomo che ha peccato con la donna e la donna. Così toglierai il male da Israele.
(Levitico cap. 20)
[10]Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l'adultero e l'adultera dovranno esser messi a morte.
Ecco cosa dispone la Legge mosaica invocata dagli accusatori in proposito. Senza alcun dubbio essi, i colpevoli di adulterio, meritano la morte! Era “adultera” la relazione sessuale tra un uomo sposato o no, e una donna sposata (o fidanzata), perché un tale rapporto offendeva il diritto di proprietà riconosciuto al marito sulla propria moglie.
Intanto però sorge un problema. Per commettere adulterio bisogna essere in due, mentre qui hanno trascinato di fronte a Gesù solo la donna. E l’uomo? Abbiamo visto per i due brani citati e riprodotti che la Legge è molto severa e radicale a tal riguardo: “Così toglierai il male da Israele” dice Mosè. Ci troviamo di fronte, oltre che a una giustizia carente, parziale, ad una vera e propria ingiustizia perpetrata ai danni della donna, solamente perché donna.
La condizione della donna, l’abbiamo visto altre volte, era di completa sottomissione. Essa era soggetta al padre fin quando restava in casa del genitore e una volta maritata essa diveniva proprietà assoluta del marito. Se vogliamo vedere uno spaccato della condizione della donna spulciamo nel Siracide (o Ecclesiatico), scritto appena cento – centocinquanta anni prima di Cristo, cosa ci dice della condizione femminile. Ne riproduco un brano emblematico:
(Siracide cap. 42)
[9]Una figlia è per il padre un'inquietudine segreta,
la preoccupazione per lei allontana il sonno:
nella sua giovinezza, perché non sfiorisca,
una volta accasata, perché non sia ripudiata.
[10]Finché è ragazza, si teme che sia sedotta
e che resti incinta nella casa paterna;
quando è con un marito, che cada in colpa,
quando è accasata, che sia sterile.
[11]Su una figlia indocile rafforza la vigilanza,
perché non ti renda scherno dei nemici,
oggetto di chiacchiere in città e favola della gente,
sì da farti vergognare davanti a tutti.
Un altro brano:
(Siracide cap. 9)
[9]Non sederti mai accanto a una donna sposata,
non frequentarla per bere insieme con lei
perché il tuo cuore non si innamori di lei
e per la tua passione tu non scivoli nella rovina.
Se andiamo a vedere anche altri libri o brani del Vecchio Testamento, l’opinione sulla condizione femminile sostanzialmente non cambia. Ci limitiamo a questi due. La donna non supera, non per suo volere naturalmente, la maggiore età se non con Gesù e il suo insegnamento di misericordia ed amore. Nel brano del Siracide, pare più che evidente che sul comportamento della donna neppure il proprio padre era disposto a dare credito; si doveva stare sempre in guardia per non cadere vittima dei suoi malefizi: essa era portata, per la sua stessa natura, a fare il male. A onor del vero nel Siracide si incontrano anche dei brani in cui si fa un elogio più che dovuto alla buona padrona di casa, alla donna virtuosa.
Ma, ritornando al nostro brano evangelico, l’aver tradotto di fronte a Gesù solo la donna aveva la sua giustificazione. Secondo i brani del Siracide citati, lei era colpevole di aver ammaliato e sedotto l’uomo.
[22]. Così toglierai il male da Israele. I giudici del racconto evangelico hanno indubbiamente ragione di tenersi saldi alla tradizione della Legge (eliminare il peccatore con il peccato) ma hanno torto nel bloccarla in un sistema che non lascia più spazio alle aperture che essa stessa contiene ed al Dio vivente che rende incessantemente nuove le letture che l’uomo fa delle Sacre Scritture. Essi preferiscono la lettura ben definita e definibile allo spirito della Legge. Non vogliono tenere conto della realtà dell’uomo (e della donna), della sua debolezza di fronte alla prepotenza della carne, della continua tentazione cui l’uomo è sottoposto in ogni momento della sua vita, e non necessariamente solo quelle della carne. I giudici si ritenevano i depositari, i custodi della Legge scritta e tramandata una volta per tutte, senza alcuna possibilità di penetrare nello spirito della legge (vedi la condanna di non molto tempo fa, aprile 2002, di quelle due donne, Safya Husseini e Amina Lawal in Nigeria, ma pare che ce ne siano a centenaria in tutta la Nigeria, povere creature, di religione musulmana condannate alla lapidazione. Certamente colpevoli, ma condannate secondo la legge della Shari’a, che è legge coranica inappellabile, senza nessuna apertura alla misericordia o almeno alla umana comprensione).
[3]Allora gli scribi e i farisei mettono la donna in piedi come un accusato, in mezzo al cerchio degli accusatori. Sembra di vedere la scena; il cerchio è chiuso da Gesù che si trova lì ad insegnare. Gesù è seduto, come si addice ad un giudice che si siede a giudicare. L’accusata posta in piedi in mezzo, al centro del cerchio, doveva attrarre gli occhi di tutti, scribi e farisei, severi nella loro accusa e duri nella condanna già emessa nel loro cuore. Ma non è così. Agli scribi e farisei della donna non importa nulla, a loro interessa l’atteggiamento di Gesù. A loro interessa solo mettere Gesù in difficoltà e screditarlo di fronte ai suoi seguaci. Hanno escogitato un tranello nel quale far cadere Gesù. Infatti portandogli una donna colta in fragrante adulterio hanno messo Gesù con le spalle al muro: se Gesù avesse usato clemenza alla donna, si sarebbe messo contro la legge di Mosè ed essere accusato di bestemmia e trascinarlo in giudizio di fronte al Sinedrio, oltre che inimicargli le folle ligie alla tradizioni della Legge; se avesse avvallato la loro sentenza, sempre secondo la Legge, avrebbe smentito tutta la sua predicazione e sarebbe apparso inaffidabile e poco credibile agli occhi di chi lo ascoltava e seguiva. Come aggiunta possiamo dire che se avesse emesso la sentenza di morte seduta stante si sarebbe messo contro l’autorità romana che non concedeva agli ebrei, neppure in nome della Legge divina, di emettere ed eseguire condanne a morte. Non c’è che dire: il tranello era ben congegnato. Che fosse un tranello teso a Gesù è dimostrato anche dal fatto che manca l’offeso, il marito o il fidanzato o il padre. Inoltre solo un tribunale regolare avrebbe potuto emettere la sentenza e non un Rabbi, un Maestro, per quanto autorevole. Era già stata emessa la condanna? Doveva solo trattarsi di eseguire la sentenza già pronunciata? Non c’è modo di capirlo dal testo; pertanto siamo portati credere che si sia trattato di un tranello teso a Gesù.
Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. Gesù però non risponde, cerca di tergiversare. Il vero accusato ora non è più la donna ma Gesù stesso, colui che avevano eletto a giudice; e lo avevano pure chiamato Maestro!. Tutti gli occhi sono puntati su Gesù in attesa di coglierlo in fallo. A sua volta Gesù più che dalla donna è colpito dalla durezza di quei cuori, chiusi alla misericordia. Non risponde loro ma si china a scrivere per terra. E cosa avrebbe potuto dire? “Razze di vipere che cercate nelle pieghe delle Legge per trovarvi la morte e non la vita.”? Non dice nulla, tace. E quelli ad insistere; sentono di averlo in pugno e non vogliono rinunciare.
Gesù alzò il capo e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». “Chi è senza peccato”. C’è qualcuno senza peccato?
(1Giovanni cap. 1)
[8]Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi.
Nessuno è senza peccato, tutti, dal peccato di Adamo in poi, siamo nel peccato. Ma Gesù non vuole la morte del peccatore ma il suo ravvedimento: “Chi di voi si sente senza peccato scagli la prima pietra”. Gesù usa misericordia verso gli scribi e i farisei consegnandoli alle loro proprie coscienze, a quella facoltà intuitiva in virtù della quale si giudica un atto compiuto o da compiere. Ciascuno si guarderà dentro, rivangherà i propri misfatti occulti, quelli che nascondiamo a noi stessi, nel nostro subconscio, e ne trarrà le dovute conseguenze. Quanti giudizi frettolosi, quante condanne impietose, magari non espressi se non nella nostra mente, che risorgono alla memoria come fantasmi dimenticati!!. Mettere a nudo il nostro “io”, la nostra personalità conosciuta solo da noi stessi e mai confessate o fatte apparire agli altri, per trovare dei peccati che non si possono neppure confessare perché non sono fatti, non sono avvenimenti ma giudizi, desideri, fantasie magari, che abbiamo accarezzato per un secondo in più prima di respingerla. Tutto questo ciascuno di noi, nessuno escluso, tiene gelosamente nascosto nelle pieghe della memoria e risuscitabile ad interrogazione di quella che noi chiamiamo “coscienza”, il nostro “io” nascosto agli altri ma non a noi stessi. Questo giudice che siede a giudicare dentro di noi che noi, ripeto chiamiamo coscienza, è spesso spietato e senza misericordia, più severo e intransigente della stessa Legge di Dio. A questa coscienza Gesù affidò scribi e farisei. Non li condannò. Gesù portò agli uomini il perdono escatologico (per l’eternità) e gratuito di Dio e non voleva condannarli, ma che si ravvedessero.
[9]Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Lasciano cadere dalle mani quelle pietre che avevano già raccolte per fare giustizia e se ne vanno mogi mogi con lo sguardo confuso e rivolto a terra come chi non vuol vedere e non vuole essere visto in faccia. Ad uno ad uno a cominciare dai più anziani nei quali, probabilmente, il cumulo della spazzatura è più alto.
Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Dice S. Agostino: “ Rimane solo la misera e la Misericordia” . Rimane il peccato ed il perdono. Il peccato rimane peccato, anche se viene perdonato.
[10]Alzatosi allora Gesù le disse: «Nessuno ti ha condannata?». [11]Ed essa rispose: «Nessuno, Signore».
Adesso anche Gesù si alza in piedi, come si conviene ad un giudice che sta per emettere la sentenza.
«Neanch'io ti condanno; Questa è la sentenza di Gesù. Ma << và e d'ora in poi non peccare più». Resisti cioè alla tentazione della carne. Gesù, uomo, conosce quali e quante sono le tentazioni cui l’uomo è sottoposto. [19] io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Dice S. Paolo nella lettera ai Romani. E’ talmente radicato in lui il male che l’uomo da solo è incapace di lottare e di vincere.
Agli scribi e farisei, nei quali ci riconosciamo se non tutti almeno una grande maggioranza, viene lasciato il compito di vigilare, di non giudicare mai, neppure quando tutto sembra chiaro. Quella donna sembrava colpevole? E se invece era lei la vittima di una qualche violenza, anche psicologica?
Comunque cerchiamo di non dimenticare mai ciò che ci dice Giacomo nella sua lettera.
(Giacomo cap. 2)
[13]il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio.
Saremo giudicati con lo stesso metro con cui noi avremo giudicato gli altri.
IV DOMENICA DI QUARESIMA
QUESTA DOMENICA VOGLIO ANNOIARVI PIU' DEL SOLITO: RIPORTO LE MIE RIFLESSIONI ATTUALI E QUELLE SCRITTE NELL'ANNO C DEL 2001. PERDONATEMI QUINDI LA LUNGAGGINE.
IV° DOMENICA DI QUARESIMA
14 – 03 – 10
(Luca cap. 15,1-3;11- 32)
Per questa 4° Domenica di quaresima la Santa Liturgia ci propone la parabola del “figliol prodigo” o del “prodigo” o, come oggi si tende a intitolarla, del “Padre misericordioso”. La prodigalità è il contrario dell’avarizia e sono entrambe colpe di “dismisura” nell’uso dei beni materiali e Dante nel Purgatorio li incontra nella quinta cornice, mentre stanno col viso rivolto a quella terra che tanto hanno stimato. E’, questa, una delle parabole di Gesù più note tanto, che mi sembra superfluo riportarne il testo. Nella pratica della “lectio divina” distinguiamo diversi passaggi, o momenti, che nella prassi tendiamo ad unirli in unico momento. Il primo momento è, ovviamente, la lettura del testo, la “lectio” seguito dalla “scrutatio”, cioè la ricerca di passi paralleli, o assimilabili, per meglio penetrare il senso del brano in esame. Un terzo momento è la “meditatio” che è l’attualizzazione personale del brano, cui seguirà la “oratio” e la “contemplatio”.
Essendo il brano ben conosciuto, iniziamo direttamente dalla “meditatio”. In questa parabola dove mi colloco io con la mia vita? Quale ruolo ho? Sono proprio sicuro di non aver sperperato la vita che il Signore mi ha dato? Anche io a un certo punto della mia vita ho detto: ”Voglio vivere a modo mio, voglio fare come fanno tutti”. E ho voltato le spalle al Signore mio Dio andandomene lontano da Lui, in un paese non fisico, ma dove credevo di trovare la felicità dei sensi, di godere della mia vita, di fare altre esperienze. Ritrovandomi con l’amaro in bocca sono ritornato a Lui che stava instancabilmente ad aspettarmi dall’alto della torre, pronto ad accogliermi misericordiosamente con le braccia aperte. Nella parabola il figliol prodigo ritorna al Padre, è da credere, veramente pentito e guarito da ogni desiderio ulteriore di evasione. Io sono stato peggiore di lui perché sono andato via da Lui e ritornato un’infinità di volte, approfittando della sua misericordia. Oltre questo, cosa posso dire ancora? La consapevolezza di avere sprecato quella vita che con tanta generosità il Signore mi ha dato, continua a darmi l’amaro in bocca. Avrei potuto impiegare meglio quella salute e quella intelligenza che il Signore mi ha concesso, ma non le ho sapute utilizzare al meglio; troppe volte ho utilizzato quei doni in modo e per fini sbagliati. Non sono ipercritico nei miei riguardi, ma mi sforzo di essere obbiettivo e di vedere il tutto da una visione esterna a me.” Spesso accade che, guardandosi nel cuore e pensando a Dio, si provi un disagio difficilmente definibile, come se Dio non fosse contento delle nostre scelte, della nostra vita” . A questo si aggiunge un senso di inadeguatezza, di incapacità a fare da solo la volontà di Dio, a seguire i suoi insegnamenti fino in fondo. Mi rendo naturalmente conto che la mia situazione è comune a molti, per non dire alla stragrande maggioranza dei credenti e che fidiamo tutti nella infinita misericordia di Dio, ma la consapevolezza del male che alberga nel cuore dell’uomo, e in me, non mi consola dall’avere male utilizzato la mia vita e apre il mio cuore alla speranza.
[25]Il figlio maggiore si trovava nei campi e quando sente la festa che il Padre ha organizzato per il figlio ritrovato, si indispettisce e non vuole più entrare in casa. Ho dei punti di contatto con questo altro personaggio? Certamente quando mi erigo a giudice di persone e fatti, direi che mi calo proprio in quel discusso e discutibile personaggio. “ Non giudicate, per non essere giudicati” (Mt.7,2). Per noi uomini, e per me, giudicare coincide col condannare. Si condanna per ignoranza il più delle volte, perché non conosciamo esattamente l’atto o la persona che stiamo giudicando, ma si condanna anche, piuttosto spesso, per invidia, per gelosia o per istintivo rifiuto verso una persona; che neppure conosciamo personalmente. “Si trovava nei campi”, faceva il suo dovere di figlio. Ma lo faceva con amore, o non, piuttosto, con uno spirito da ragioniere: “Ho dato tanto, mi spetta altrettanto”? Quante volte sono andato a messa con questo spirito ragionieristico del dare ed avere? Andare a messa, partecipare ai riti liturgici senza amore è calarsi nei panni del figlio maggiore il quale non si è ribellato apertamente al Padre come il fratello minore, forse, solo perché gli è mancato il coraggio, ma nel profondo era peggiore di suo fratello. Ha vissuto in casa del Padre non da figlio, ma da servo; ligio alla legge, ma privo d’amore. Questo non si sente peccatore, come il fratello minore, si ritiene giusto, anzi, talvolta, anche più giusto di Dio… Chi non ha mai sentito la frase: Perché Dio permette queste cose?”
Non possiamo cambiare ciò che abbiamo fatto nella nostra vita, ma dobbiamo riconoscere con amore e gratitudine questo Padre, veramente “misericordioso”, che ci ha atteso paziente per accoglierci a braccia aperte lieto del nostro ritorno. Non ci rimane che chiedere a Lui, che tutto può, di darci tutti i giorni quel “pane quotidiano”, che è il fare la sua volontà che è “amarlo, adorarlo e servirlo in questa vita” per goderlo nell’altra per l’eternità.
Marko Ivan Ruptnik “Gli si gettò al collo”
25 marzo 2001
Questa parabola un tempo era chiamata la parabola del figliol prodigo. Ora, più opportunamente, la si definisce quella del “padre misericordioso”. Un conto è, infatti, partire dal figlio ed un conto è partire dalla figura del Padre.
A Gesù gli scribi e i farisei avevano posto una domanda: ”Perché mangi con i peccatori?” E la parabola è la risposta a questa domanda. E’ da dire che tutti possiamo condividere l’obbiezione dei farisei. “Perché frequenti gente disonesta?” Sappiamo bene quanto anche noi stiamo attenti a non farci vedere in giro con della gente di dubbia reputazione. E sappiamo di quanto i politici siano attenti a non farsi fotografare o vedere con persone coinvolte nella mafia. Quindi noi per primi avremmo formulato le stesse riserve, impastati come siamo di perbenismo. Lo scandalo degli scribi e dei farisei è il nostro scandalo. Gesù invece dà fiducia a tutti. Neppure la donna scoperta in fragrante adulterio è da Lui condannata: non la considera perduta. Dio accorda fiducia a tutti e la condiscendenza del padre ad accogliere le richieste, certamente ingiuste, del figlio minore non è dabbenaggine, ma è l’espressione della assoluta libertà che Dio ha concesso all’uomo e della fiducia che Dio ha nel suo immenso amore. Il Signore è convinto che il suo amore farà breccia nel cuore del figlio, della prostituta. E’ un amore smisurato e che mai può venir meno qualunque strada l’uomo decida di intraprendere. Il figlio, dopo che avrà dato fondo a tutte le sue illusioni, si accorge che l’amore del padre è eterno. Il nuovo ambiente, la sua nuova situazione, il suo nuovo libero stato non lo soddisfa, non lo sfama, non gli dà neppure quelle carrube dì cui si nutrono le bestie. Le esperienze che ha vissuto lontano dal padre non gli danno neppure le forze per alzarsi in piedi e camminare, gli mancano persino le forze. Ma l’amore del padre di cui si ricorda, questo gli dà la forza di mettersi in piedi e mettersi in cammino verso il padre.
L’immagine di Dio impressa al momento della creazione non sarà mai cancellata totalmente dal cuore dell’uomo. La fedeltà di Dio al suo amore dà la certezza all’uomo di poter ritornare, di non essere respinto. Dio non respinge mai nessuno, ma lascia sempre la speranza di un ritorno: tale è l’amore indelebile del Padre impressoci al momento della creazione. Dovunque andiamo, qualsiasi cosa facciamo alla fine l’uomo non potrà non incontrare Dio. Gregorio di Nissa paragonava la vita dell’uomo ad una sfera, sulla cui superficie c’è l’immagine di Dio creatore e della sua creatura. La creatura crede di allontanarsi da Dio e vaga in questa sfera, e credendo di avere persino dimenticato l’immagine di Dio si trova, dopo il suo lungo peregrinare, a incontrare nuovamente Dio.
Il figlio prodigo si illude di avere tagliato tutti i ponti col padre: egli agisce nella sua libertà, ma alla fine, dopo aver pagato tutte le conseguenze delle sue scelte, l’amore del padre sarà l’unica sua speranza e certezza. Siamo di fronte in questa parabola alla epifania dell’amore del Padre.
Nessuno gli dà le carrube che potrebbero dargli la forza per mettersi in piedi e dirigersi verso il Padre. Ma lo stesso amore del Padre sarà la sola forza capace di metterlo in cammino. Al Padre che ha manifestato una incrollabile fiducia nell’uomo. Il Padre sembrerebbe quasi che se ne stesse su una torre ad aspettare questo figlio perduto per gli uomini ma non per Lui, perché lo vede da lontano e gli corre incontro gettandoglisi al collo. Quasi non lo fa parlare, non lo rimprovera di nulla e tanto meno gli prospetta una qualche punizione: “ Su! su! Facciamo festa. Solo questo importa in questo momento di gioia”. Gli mette la veste più bella: quella con le maniche lunghe, come quella che Giacobbe fece per il figlio Giuseppe suscitando l’invidia dei fratelli, i calzari ai piedi, l’anello al dito, segno di dignità e di nobiltà. Non gli chiede conto del patrimonio che gli aveva consegnato e di che fine questo abbia fatto. No. E’ solo un momento di gioia. E non gliene chiederà conto neppure dopo. Certamente non agisce, questo padre, e non ragiona come ragiona il mondo: ad un errore, per non dire una colpa, un delitto DEVE corrispondere una punizione; altrimenti non c’è giustizia. E di questa opinione del mondo si fa paladino il fratello maggiore, che ragiona così come ragioniamo noi: non c’è giustizia. “Io non ti ho mai chiesto nulla, non mi hai mai dato nulla, ti ho solo servito fedelmente e tu ora fai festa per questo figlio che non merita. Non ha mai lavorato, ha sperperato la fortuna che tu gli hai dato, e tu ora lo metti in trono come se fosse un re”. “ Tu sei misericordioso? Mi sta bene. Ma questa tua misericordia, in questo caso almeno, è eccessiva. ”
La misericordia del Padre è talmente grande e fuori dei nostri schemi che non solo ci sorprende, ma ci sconcerta persino. Sembra quasi un’ingiustizia, ma se, come S. Gregorio Magno, pensiamo che la misericordia del Padre è talmente immensa che non ci si può mettere a tavola gustare quei cibi grassi e succulenti, di cui parla Isaia, se prima tutti, ma proprio tutti i figli siano seduti attorno alla tavola.
IV° DOMENICA DI QUARESIMA
14 – 03 – 10
(Luca cap. 15,1-3;11- 32)
Per questa 4° Domenica di quaresima la Santa Liturgia ci propone la parabola del “figliol prodigo” o del “prodigo” o, come oggi si tende a intitolarla, del “Padre misericordioso”. La prodigalità è il contrario dell’avarizia e sono entrambe colpe di “dismisura” nell’uso dei beni materiali e Dante nel Purgatorio li incontra nella quinta cornice, mentre stanno col viso rivolto a quella terra che tanto hanno stimato. E’, questa, una delle parabole di Gesù più note tanto, che mi sembra superfluo riportarne il testo. Nella pratica della “lectio divina” distinguiamo diversi passaggi, o momenti, che nella prassi tendiamo ad unirli in unico momento. Il primo momento è, ovviamente, la lettura del testo, la “lectio” seguito dalla “scrutatio”, cioè la ricerca di passi paralleli, o assimilabili, per meglio penetrare il senso del brano in esame. Un terzo momento è la “meditatio” che è l’attualizzazione personale del brano, cui seguirà la “oratio” e la “contemplatio”.
Essendo il brano ben conosciuto, iniziamo direttamente dalla “meditatio”. In questa parabola dove mi colloco io con la mia vita? Quale ruolo ho? Sono proprio sicuro di non aver sperperato la vita che il Signore mi ha dato? Anche io a un certo punto della mia vita ho detto: ”Voglio vivere a modo mio, voglio fare come fanno tutti”. E ho voltato le spalle al Signore mio Dio andandomene lontano da Lui, in un paese non fisico, ma dove credevo di trovare la felicità dei sensi, di godere della mia vita, di fare altre esperienze. Ritrovandomi con l’amaro in bocca sono ritornato a Lui che stava instancabilmente ad aspettarmi dall’alto della torre, pronto ad accogliermi misericordiosamente con le braccia aperte. Nella parabola il figliol prodigo ritorna al Padre, è da credere, veramente pentito e guarito da ogni desiderio ulteriore di evasione. Io sono stato peggiore di lui perché sono andato via da Lui e ritornato un’infinità di volte, approfittando della sua misericordia. Oltre questo, cosa posso dire ancora? La consapevolezza di avere sprecato quella vita che con tanta generosità il Signore mi ha dato, continua a darmi l’amaro in bocca. Avrei potuto impiegare meglio quella salute e quella intelligenza che il Signore mi ha concesso, ma non le ho sapute utilizzare al meglio; troppe volte ho utilizzato quei doni in modo e per fini sbagliati. Non sono ipercritico nei miei riguardi, ma mi sforzo di essere obbiettivo e di vedere il tutto da una visione esterna a me.” Spesso accade che, guardandosi nel cuore e pensando a Dio, si provi un disagio difficilmente definibile, come se Dio non fosse contento delle nostre scelte, della nostra vita” . A questo si aggiunge un senso di inadeguatezza, di incapacità a fare da solo la volontà di Dio, a seguire i suoi insegnamenti fino in fondo. Mi rendo naturalmente conto che la mia situazione è comune a molti, per non dire alla stragrande maggioranza dei credenti e che fidiamo tutti nella infinita misericordia di Dio, ma la consapevolezza del male che alberga nel cuore dell’uomo, e in me, non mi consola dall’avere male utilizzato la mia vita e apre il mio cuore alla speranza.
[25]Il figlio maggiore si trovava nei campi e quando sente la festa che il Padre ha organizzato per il figlio ritrovato, si indispettisce e non vuole più entrare in casa. Ho dei punti di contatto con questo altro personaggio? Certamente quando mi erigo a giudice di persone e fatti, direi che mi calo proprio in quel discusso e discutibile personaggio. “ Non giudicate, per non essere giudicati” (Mt.7,2). Per noi uomini, e per me, giudicare coincide col condannare. Si condanna per ignoranza il più delle volte, perché non conosciamo esattamente l’atto o la persona che stiamo giudicando, ma si condanna anche, piuttosto spesso, per invidia, per gelosia o per istintivo rifiuto verso una persona; che neppure conosciamo personalmente. “Si trovava nei campi”, faceva il suo dovere di figlio. Ma lo faceva con amore, o non, piuttosto, con uno spirito da ragioniere: “Ho dato tanto, mi spetta altrettanto”? Quante volte sono andato a messa con questo spirito ragionieristico del dare ed avere? Andare a messa, partecipare ai riti liturgici senza amore è calarsi nei panni del figlio maggiore il quale non si è ribellato apertamente al Padre come il fratello minore, forse, solo perché gli è mancato il coraggio, ma nel profondo era peggiore di suo fratello. Ha vissuto in casa del Padre non da figlio, ma da servo; ligio alla legge, ma privo d’amore. Questo non si sente peccatore, come il fratello minore, si ritiene giusto, anzi, talvolta, anche più giusto di Dio… Chi non ha mai sentito la frase: Perché Dio permette queste cose?”
Non possiamo cambiare ciò che abbiamo fatto nella nostra vita, ma dobbiamo riconoscere con amore e gratitudine questo Padre, veramente “misericordioso”, che ci ha atteso paziente per accoglierci a braccia aperte lieto del nostro ritorno. Non ci rimane che chiedere a Lui, che tutto può, di darci tutti i giorni quel “pane quotidiano”, che è il fare la sua volontà che è “amarlo, adorarlo e servirlo in questa vita” per goderlo nell’altra per l’eternità.
Marko Ivan Ruptnik “Gli si gettò al collo”
25 marzo 2001
Questa parabola un tempo era chiamata la parabola del figliol prodigo. Ora, più opportunamente, la si definisce quella del “padre misericordioso”. Un conto è, infatti, partire dal figlio ed un conto è partire dalla figura del Padre.
A Gesù gli scribi e i farisei avevano posto una domanda: ”Perché mangi con i peccatori?” E la parabola è la risposta a questa domanda. E’ da dire che tutti possiamo condividere l’obbiezione dei farisei. “Perché frequenti gente disonesta?” Sappiamo bene quanto anche noi stiamo attenti a non farci vedere in giro con della gente di dubbia reputazione. E sappiamo di quanto i politici siano attenti a non farsi fotografare o vedere con persone coinvolte nella mafia. Quindi noi per primi avremmo formulato le stesse riserve, impastati come siamo di perbenismo. Lo scandalo degli scribi e dei farisei è il nostro scandalo. Gesù invece dà fiducia a tutti. Neppure la donna scoperta in fragrante adulterio è da Lui condannata: non la considera perduta. Dio accorda fiducia a tutti e la condiscendenza del padre ad accogliere le richieste, certamente ingiuste, del figlio minore non è dabbenaggine, ma è l’espressione della assoluta libertà che Dio ha concesso all’uomo e della fiducia che Dio ha nel suo immenso amore. Il Signore è convinto che il suo amore farà breccia nel cuore del figlio, della prostituta. E’ un amore smisurato e che mai può venir meno qualunque strada l’uomo decida di intraprendere. Il figlio, dopo che avrà dato fondo a tutte le sue illusioni, si accorge che l’amore del padre è eterno. Il nuovo ambiente, la sua nuova situazione, il suo nuovo libero stato non lo soddisfa, non lo sfama, non gli dà neppure quelle carrube dì cui si nutrono le bestie. Le esperienze che ha vissuto lontano dal padre non gli danno neppure le forze per alzarsi in piedi e camminare, gli mancano persino le forze. Ma l’amore del padre di cui si ricorda, questo gli dà la forza di mettersi in piedi e mettersi in cammino verso il padre.
L’immagine di Dio impressa al momento della creazione non sarà mai cancellata totalmente dal cuore dell’uomo. La fedeltà di Dio al suo amore dà la certezza all’uomo di poter ritornare, di non essere respinto. Dio non respinge mai nessuno, ma lascia sempre la speranza di un ritorno: tale è l’amore indelebile del Padre impressoci al momento della creazione. Dovunque andiamo, qualsiasi cosa facciamo alla fine l’uomo non potrà non incontrare Dio. Gregorio di Nissa paragonava la vita dell’uomo ad una sfera, sulla cui superficie c’è l’immagine di Dio creatore e della sua creatura. La creatura crede di allontanarsi da Dio e vaga in questa sfera, e credendo di avere persino dimenticato l’immagine di Dio si trova, dopo il suo lungo peregrinare, a incontrare nuovamente Dio.
Il figlio prodigo si illude di avere tagliato tutti i ponti col padre: egli agisce nella sua libertà, ma alla fine, dopo aver pagato tutte le conseguenze delle sue scelte, l’amore del padre sarà l’unica sua speranza e certezza. Siamo di fronte in questa parabola alla epifania dell’amore del Padre.
Nessuno gli dà le carrube che potrebbero dargli la forza per mettersi in piedi e dirigersi verso il Padre. Ma lo stesso amore del Padre sarà la sola forza capace di metterlo in cammino. Al Padre che ha manifestato una incrollabile fiducia nell’uomo. Il Padre sembrerebbe quasi che se ne stesse su una torre ad aspettare questo figlio perduto per gli uomini ma non per Lui, perché lo vede da lontano e gli corre incontro gettandoglisi al collo. Quasi non lo fa parlare, non lo rimprovera di nulla e tanto meno gli prospetta una qualche punizione: “ Su! su! Facciamo festa. Solo questo importa in questo momento di gioia”. Gli mette la veste più bella: quella con le maniche lunghe, come quella che Giacobbe fece per il figlio Giuseppe suscitando l’invidia dei fratelli, i calzari ai piedi, l’anello al dito, segno di dignità e di nobiltà. Non gli chiede conto del patrimonio che gli aveva consegnato e di che fine questo abbia fatto. No. E’ solo un momento di gioia. E non gliene chiederà conto neppure dopo. Certamente non agisce, questo padre, e non ragiona come ragiona il mondo: ad un errore, per non dire una colpa, un delitto DEVE corrispondere una punizione; altrimenti non c’è giustizia. E di questa opinione del mondo si fa paladino il fratello maggiore, che ragiona così come ragioniamo noi: non c’è giustizia. “Io non ti ho mai chiesto nulla, non mi hai mai dato nulla, ti ho solo servito fedelmente e tu ora fai festa per questo figlio che non merita. Non ha mai lavorato, ha sperperato la fortuna che tu gli hai dato, e tu ora lo metti in trono come se fosse un re”. “ Tu sei misericordioso? Mi sta bene. Ma questa tua misericordia, in questo caso almeno, è eccessiva. ”
La misericordia del Padre è talmente grande e fuori dei nostri schemi che non solo ci sorprende, ma ci sconcerta persino. Sembra quasi un’ingiustizia, ma se, come S. Gregorio Magno, pensiamo che la misericordia del Padre è talmente immensa che non ci si può mettere a tavola gustare quei cibi grassi e succulenti, di cui parla Isaia, se prima tutti, ma proprio tutti i figli siano seduti attorno alla tavola.
giovedì 4 marzo 2010
TERZA DOMENICA DI QUARESIMA
III DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C
07 – 03 - 2010
(Luca cap. 13) [1]In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. [2]Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? [3]No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. [4]O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? [5]No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». [6]Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. [7]Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? [8]Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime [9]e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai».
Continui erano gli atti di insubordinazione degli ebrei contro il governo di Roma che, per mano del procuratore Ponzio Pilato, reagiva con inaudita violenza ed esercitava la sua reazione anche durante i riti religiosi. Fu riferito a Gesù l’episodio di certi galilei che erano stati massacrati dai soldati di Pilato durante un sacrifico mescolando il loro sangue “con quello dei loro sacrifici”. Si aspettavano da Gesù una condanna politica dell’operato dei romani, ma Gesù rammenta loro anche l’episodio di cronaca a tutti noto della torre crollata sopra diciotto uomini avvenuta a Gerusalemme nei pressi della piscina di Siloe. Di fronte ad una disgrazia, o morte violenta, il popolo era solito interrogarsi quale fosse stata la colpa della vittima per essere andata incontro ad una morte simile. Chi gli aveva comunicato queste notizie si aspettava un atto di condanna delle vittime e, magari, la rivelazione di quale orrendo peccato fossero essi responsabili. “Niente affatto!” dice Gesù. “Essi non erano più peccatori di voi, ma se non vi convertite farete la loro stessa fine”. Ed ecco il tema che oggi la Santa Liturgia ci propone: la conversione. E, per rafforzare e rendere ancora più chiaro il concetto, il Vangelo di Luca ci presenta la parabola del fico sterile:” Se non porta frutto, taglialo e brucialo”.
Molti sono gli interrogativi che il brano evangelico pone. Cosa si intende per frutto; cosa si intende per fico; cosa si intende per conversione?
Il Frutto. Tutto ciò che noi facciamo in vista della vita futura è buono, tutto il resto non lo è. Li possiamo individuare nei doni che otteniamo per mezzo dello Spirito Santo: “”Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.””(Gal 5,22S)
Il fico sterile. Potremmo identificarlo con Israele che disattende la legge del Signore. Ci farebbe comodo: stiamo osservando la pagliuzza nell’occhio degli altri e non vediamo la trave che è nel nostro occhio. Quel fico sterile sono io, sei tu, fratello mio che mi leggi; è ciascuno di noi individualmente.
Conversione. Convertirsi significa "credere che Gesù ha dato se stesso per me, morendo sulla croce e, risorto, vive con me e in me". (Benedetto XVI) In greco “metànoia” è la conversione interiore, non è solamente il comportamento esteriore, ma il cambiare completamente mentalità. E’ quello che chiede a noi il Signore in questa Quaresima. Vuole che ci prepariamo al triduo pasquale per viverlo con la consapevolezza profonda, radicata nel nostro spirito che Gesù è morto per noi, pensando individualmente a me, è salito su quella croce per me, perché io fossi salvo. Posso rimanere indifferente a questo? Posso continuare a pensare che mi riguarda relativamente? Oppure debbo continuare a credere come i contemporanei di Gesù che gli uccisi da Pilato e quelli travolti dalla torre fossero i peccatori ed io sono scampato solo perché ritenuto giusto?
07 – 03 - 2010
(Luca cap. 13) [1]In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici. [2]Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? [3]No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. [4]O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? [5]No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». [6]Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. [7]Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? [8]Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime [9]e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai».
Continui erano gli atti di insubordinazione degli ebrei contro il governo di Roma che, per mano del procuratore Ponzio Pilato, reagiva con inaudita violenza ed esercitava la sua reazione anche durante i riti religiosi. Fu riferito a Gesù l’episodio di certi galilei che erano stati massacrati dai soldati di Pilato durante un sacrifico mescolando il loro sangue “con quello dei loro sacrifici”. Si aspettavano da Gesù una condanna politica dell’operato dei romani, ma Gesù rammenta loro anche l’episodio di cronaca a tutti noto della torre crollata sopra diciotto uomini avvenuta a Gerusalemme nei pressi della piscina di Siloe. Di fronte ad una disgrazia, o morte violenta, il popolo era solito interrogarsi quale fosse stata la colpa della vittima per essere andata incontro ad una morte simile. Chi gli aveva comunicato queste notizie si aspettava un atto di condanna delle vittime e, magari, la rivelazione di quale orrendo peccato fossero essi responsabili. “Niente affatto!” dice Gesù. “Essi non erano più peccatori di voi, ma se non vi convertite farete la loro stessa fine”. Ed ecco il tema che oggi la Santa Liturgia ci propone: la conversione. E, per rafforzare e rendere ancora più chiaro il concetto, il Vangelo di Luca ci presenta la parabola del fico sterile:” Se non porta frutto, taglialo e brucialo”.
Molti sono gli interrogativi che il brano evangelico pone. Cosa si intende per frutto; cosa si intende per fico; cosa si intende per conversione?
Il Frutto. Tutto ciò che noi facciamo in vista della vita futura è buono, tutto il resto non lo è. Li possiamo individuare nei doni che otteniamo per mezzo dello Spirito Santo: “”Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé.””(Gal 5,22S)
Il fico sterile. Potremmo identificarlo con Israele che disattende la legge del Signore. Ci farebbe comodo: stiamo osservando la pagliuzza nell’occhio degli altri e non vediamo la trave che è nel nostro occhio. Quel fico sterile sono io, sei tu, fratello mio che mi leggi; è ciascuno di noi individualmente.
Conversione. Convertirsi significa "credere che Gesù ha dato se stesso per me, morendo sulla croce e, risorto, vive con me e in me". (Benedetto XVI) In greco “metànoia” è la conversione interiore, non è solamente il comportamento esteriore, ma il cambiare completamente mentalità. E’ quello che chiede a noi il Signore in questa Quaresima. Vuole che ci prepariamo al triduo pasquale per viverlo con la consapevolezza profonda, radicata nel nostro spirito che Gesù è morto per noi, pensando individualmente a me, è salito su quella croce per me, perché io fossi salvo. Posso rimanere indifferente a questo? Posso continuare a pensare che mi riguarda relativamente? Oppure debbo continuare a credere come i contemporanei di Gesù che gli uccisi da Pilato e quelli travolti dalla torre fossero i peccatori ed io sono scampato solo perché ritenuto giusto?
Iscriviti a:
Post (Atom)